Alcuni secondi/decenni fa, quando ero un pre - adolescente tetro e meraviglioso.
I miei ingegnitori mi hanno incastrato in una specie di centro estivo. Venti giorni da passare intrecciando cestini con le erbe palustri, giocando a pallavolo o pigiati in un pullmino per raggiungere qualche spiaggia remota e arida a Lidosauria Marittima. Inoltre, devo scegliere numerose attività collaterali ma sono così furibondo che le seleziono a casaccio su un foglio con il mio nome scritto sopra. Tra queste capita un corso in quattro lezioni di vela, livello pre - ncipianti: Mercoledì/sabato, 11:00-16:00. Mi sembra un buon compromesso tra il nulla e il niente.
Ci spediscono in un lontano molo di Lidosauria con un piccola marina, un tendone bianco con sedie pieghevoli, qualche container con uffici e degli scafi disastrati.
Ci sono due giovani istruttori per seguirci e istruirci: uno spilungone con il naso rosso e spellato, e una ragazza bionda e abbronzata dal culo desiderabile. Entrambi indossano pantaloncini impermeabili e t-shirt con il logo geometrico dei velisti, ma la ragazza tiene la sua maglietta annodata e sollevata a scoprirle la pancia liscia e dorata. Ha un ombelico profondissimo. Io sono percorso da brividi sismici dallo stomaco all’inguine, mentre i miei compagni di corso -ragazzi tonti e ragazze trascurabili- continuano a darsi spintoni, sistemarsi i capelli, canticchiare le hit dei Simmetrics.
Le lezioni teoriche si tengono sotto il tendone, dove si crea una cappa soffocante limitandomi l’afflusso di O2 al cervello e inondandomi le ascelle di sudore. Con l’ausilio di una lavagna bianca e di un pennarello verde ci vengono spiegate la rosa dei venti, le regole della navigazione, il vademecum di sicurezza, e altre norme basilari per la sopravvivenza umana che non riesco assolutamente a memorizzare. Boccheggio asfittico e una ragazzina sciatta che mi siede di fianco dice: “Che fai? Non prendi appunti?”. Farfuglio qualcosa che lei comunque non capisce, così le chiedo in prestito una penna.
Il secondo giorno di corso, la bionda ha i capelli raccolti in un codino che le lascia scoperta la nuca, la cui curvatura mi procura ondate di vertigini. Durante una pausa, sento gli istruttori chiacchierare di un loro conoscente che ha avuto un lieve incidente. Lo spilungone sta dicendo:
“È stato per quello che hanno scoperto che aveva il cuore a destra: non lo sentivano mica con lo stetoscopio!”
“Cioè, ha tipo gli organi invertiti?”, dice la bionda. La sua bocca è una piccola O di stupore, rosa e umida.
“Sì, tutti al contrario. Come... Sì, come in uno specchio.” conclude lui, tentando una posa da figo che gli deforma il volto lentigginoso.
Il secondo giorno di corso, la bionda ha i capelli raccolti in un codino che le lascia scoperta la nuca, la cui curvatura mi procura ondate di vertigini. Durante una pausa, sento gli istruttori chiacchierare di un loro conoscente che ha avuto un lieve incidente. Lo spilungone sta dicendo:
“È stato per quello che hanno scoperto che aveva il cuore a destra: non lo sentivano mica con lo stetoscopio!”
“Cioè, ha tipo gli organi invertiti?”, dice la bionda. La sua bocca è una piccola O di stupore, rosa e umida.
“Sì, tutti al contrario. Come... Sì, come in uno specchio.” conclude lui, tentando una posa da figo che gli deforma il volto lentigginoso.
Nel primo pomeriggio abbiamo sempre un po’ di tempo per riposarci dopo il pranzo al sacco. Tutti fanno i tuffi dal pontile, io sto in disparte e leggo un libro. È la storia di uno studente americano costretto a portare un collare metallico a causa di una malattia invalidante. Il tizio viene assunto da un ricco rumeno per diventare un killer di vampiri. A pagina 43 ne riesce a catturarne uno con il proposito di torturarlo e segargli via una mano. Sono tentato di gettare il libro dal molo ma l’ho preso in prestito alla Bibilioteca Centrale di Dinosauria e rischio venti frustate per una leggerezza simile, perciò lancio in mare la penna che mi ha prestato la ragazzina sciatta.
Arriviamo al venerdì e per il giorno dopo è pre - vista la prova di navigazione: singolarmente, e dotati di giubbotti salvagente, condurremo delle barchette monoposto, seguiti in motoscafo dagli istruttori e dagli altri in attesa del loro turno, mentre i nostri ingegnitori ci guarderanno dal molo applaudendo o trepidando con urletti molto acuti. Io ho già progettato di saltare quello strazio simulando un’emicrania fulminante, perciò mi godo la mia ultima lezione. In prima fila, nascondendo il mio sguardo dietro a occhiali a specchio un po’ troppo grandi, ho una visuale privilegiata sul corpo dell’istruttrice bionda.
L’incavo della sua schiena quando si volta a scrivere sulla lavagna l’esatta modalità di manovra in caso di straorzata. Le sue tette schiacciate nelle pieghe dalla maglietta quando simula un movimento del boma. Gli occhi vacui e i sorrisi luminosi e ultrafrequenti quando descrive la posizione corretta per dirigere il timone.
La ragazzina sciatta che mi siede di fianco dice: “Non prendi appunti?”. Annuisco in modo generico ma lei non sembra soddisfatta. Verso le 15:47, anche se il pullmino del ritorno è già arrivato, scendiamo tutti sulla spiaggia dove sono arenate numerose barche provviste di alberi e cordame. Gli occhiali continuano a scivolarmi sul naso, li sistemo camminando con passo malfermo. Fuori dal tendone, il calore unito alla salsedine è ancora più insostenibile.
L’istruttore maschio ci fa guardare da vicino i vari scafi. Ce ne sono molti in vari stadi di decadenza. Alcuni sono palesemente marci e sfasciati. Sulla fiancata di uno di questi, leggo il nome Marilyn e le lettere sbiadite suscitano una strana angoscia in io. Lo spilungone racconta aneddoti e storie marinaresche di cui mi sfugge il senso. Ormai sono preda di una tensione allucinante e mi pianto le unghie nei palmi, cercando di mantenere il controllo per non lasciarmi andare a gesti inconsulti, tipo gettarmi sulla sabbia e masticare grumi di alghe urlando oscenità. Cerco con gli occhi la bionda, e la vedo poco lontano, che spruzza con la canna dell’acqua una barca in vetroresina incrostata di sabbia.
La ragazzina sciatta che mi siede di fianco dice: “Non prendi appunti?”. Annuisco in modo generico ma lei non sembra soddisfatta. Verso le 15:47, anche se il pullmino del ritorno è già arrivato, scendiamo tutti sulla spiaggia dove sono arenate numerose barche provviste di alberi e cordame. Gli occhiali continuano a scivolarmi sul naso, li sistemo camminando con passo malfermo. Fuori dal tendone, il calore unito alla salsedine è ancora più insostenibile.
L’istruttore maschio ci fa guardare da vicino i vari scafi. Ce ne sono molti in vari stadi di decadenza. Alcuni sono palesemente marci e sfasciati. Sulla fiancata di uno di questi, leggo il nome Marilyn e le lettere sbiadite suscitano una strana angoscia in io. Lo spilungone racconta aneddoti e storie marinaresche di cui mi sfugge il senso. Ormai sono preda di una tensione allucinante e mi pianto le unghie nei palmi, cercando di mantenere il controllo per non lasciarmi andare a gesti inconsulti, tipo gettarmi sulla sabbia e masticare grumi di alghe urlando oscenità. Cerco con gli occhi la bionda, e la vedo poco lontano, che spruzza con la canna dell’acqua una barca in vetroresina incrostata di sabbia.
Gli schizzi le rimbalzano addosso, investendola come una mitragliata di aghi luccicanti. La sua pelle è lustra di umidità nebulizzata nel pomeriggio torrido di Lidosauria e guardarla, per un migliaio di secondi, è sufficiente a calmarmi.
Agente +, 12:27
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